top of page

Il lato oscuro del calcio giovanile: mazzette, illusioni e ragazzi distrutti psicologicamente

  • Immagine del redattore: Andrea Ciccone
    Andrea Ciccone
  • 4 giorni fa
  • Tempo di lettura: 5 min


Tutto è cominciato da un servizio televisivo. Un’inchiesta, per essere precisi. Luca Sgarbi, inviato del programma “Le Iene”, ha alzato il velo su qualcosa che in tanti, nel calcio giovanile, già sapevano… ma che pochi avevano il coraggio di dire ad alta voce.

Con una telecamera nascosta e tanta pazienza, Sgarbi ha smascherato due procuratori: Salvatore Bagni e Giulio Biasin, mentre chiedevano (e poi prendevano) denaro e facevano promesse in cambio di un sogno: tesserare un ragazzo in un club professionistico. Mazzette. Illusioni vendute come pacchetti all-inclusive. Una scorciatoia in cambio di decine di migliaia di euro.

Il caso ha fatto (giustamente) scalpore. Ma sarebbe un errore pensare che il problema riguardi solo due persone. Quello che è emerso, infatti, è il sintomo di un sistema profondamente malato, dove il talento non basta più. O meglio: dove il talento viene scavalcato da chi ha più soldi, più contatti o più furbizia.

E mentre i riflettori si accendono sull’aspetto giudiziario e mediatico, sento il dovere di accendere un altro tipo di luce: quella sulla mente dei ragazzi. Perché la vera emergenza non è solo morale o sportiva. È psicologica.

Ed è proprio da qui che vorrei partire.

Da questo rumore di fondo nel calcio giovanile che sta diventando assordante.

Non è il boato di uno stadio, non è l’urlo di un allenatore in panchina, non è neanche la gioia di un gol segnato.

È il rumore dei soldi che passano di mano in mano, sottobanco, sottovoce, sotto ogni logica educativa.

Parliamoci chiaro: alcuni genitori oggi pagano, letteralmente, per far giocare i propri figli in club professionistici. Pagano procuratori. Pagano dirigenti. Pagano società.

Non per migliorare il percorso formativo del figlio, ma per comprare una maglia, un contratto, un’illusione.

E no, questo non è più sport. È marketing delle aspettative. È compravendita del sogno. È una cultura del “successo subito”, senza passare per il merito, per la fatica e per l'impegno.

E la cosa più pericolosa è che, così facendo, non stanno rubando solo soldi. Stanno rubando il futuro mentale di un’intera generazione di calciatori.


Quando si confonde il talento con il privilegio

Il punto è semplice, ma potente: il talento non si compra. Si costruisce.

E si costruisce con:

  • la formazione mentale,

  • l’educazione emotiva,

  • la crescita personale.


Il problema? Che nessuno lo dice abbastanza forte. Perché è molto più facile vendere illusioni che coltivare realtà. È molto più veloce organizzare un provino truccato che investire dieci anni nell’allenare un ragazzo, giorno dopo giorno, corpo e mente.

Ma il talento vero — lo sanno bene gli addetti ai lavori veri, gli allenatori intelligenti, i mental coach e i formatori qualificati — non è solo una dote genetica. È un processo. È la somma di molteplici fattori, tra potenzialità e contesto. Tra capacità individuali e ambiente.

Ecco perché affidare la crescita di un giovane calciatore a persone incompetenti è un danno enorme. Psicologico, educativo, sociale.


L’impatto invisibile sulla mente dei ragazzi

Ogni volta che un ragazzo ottiene qualcosa solo perché il padre ha pagato, quel ragazzo perde fiducia nel proprio valore.

Ogni volta che un procuratore promette visibilità invece di crescita, quella promessa diventa un’arma a doppio taglio.

Ogni volta che un genitore pretende risultati, invece di supportare il processo, la mente del giovane atleta si chiude.

E non stiamo parlando di metafore.

Stiamo parlando di ansia cronica, attacchi di panico, senso di inadeguatezza, insicurezza identitaria. Tutti sintomi che molti ragazzi stanno manifestando già a 13, 14 anni, mentre ancora si illudono di “diventare famosi”.

Il vero scandalo, insomma, non sono i soldi. È la devastazione silenziosa della psiche di migliaia di giovani atleti.


Il ruolo chiave del Mental Coach

Nel caos, serve una bussola. E quella bussola è il lavoro profondo e serio che si fa attraverso l’allenamento mentale.

Un mental coach professionista, formato, aggiornato, empatico e preparato, può aiutare i ragazzi a:

  • sviluppare autoconsapevolezza,

  • costruire una mentalità vincente

  • gestire le emozioni durante allenamenti e partite,

  • affrontare le delusioni e le pressioni esterne,

  • definire obiettivi realistici e misurabili.

Ma attenzione: non basta fare due corsi online per diventare “mental coach”. Non basta postare frasi motivazionali su Instagram. La mente umana è un territorio sacro, soprattutto se stiamo parlando di quella di un ragazzo in formazione.

Ecco perché servono professionisti qualificati. E serve una rete, solida, fatta di allenatori, psicologi, formatori, educatori, dirigenti e famiglie che parlino la stessa lingua: quella dello sviluppo, non del risultato a tutti i costi.


Serve un nuovo modello di calcio giovanile

È tempo di riscrivere le regole. Non quelle del gioco. Quelle della cultura sportiva.

Attenzione!! Ho la ricetta per risolvere tutti i problemi di questo mondo? Assolutamente no. Sono però convinto che un cambiamento debba iniziare gettando qualche piccolo seme che ci permetta di costruire una realtà diversa. Per davvero. Ecco allora cosa possiamo (e dobbiamo) fare:

1. Formare genitori consapevoli

Corsi obbligatori, non facoltativi. Su cosa significa sostenere un figlio che fa sport. Su cosa significa talento. Su cosa significano fiducia e aspettativa. Il genitore deve diventare parte del team educativo, non del team finanziario.

2. Inserire percorsi di crescita personale nei settori giovanili

Le scuole calcio dovrebbero avere un piano educativo parallelo: una palestra per la mente. Dove si parla di autostima, gestione dell’errore, rispetto, comunicazione, leadership, cooperazione.

3. Valutare i formatori, non solo i ragazzi

Se un preparatore atletico deve aggiornarsi costantemente, perché non dovrebbe farlo anche chi allena le emozioni? Le società devono scegliere allenatori mentali certificati, con metodi testati e comprovati risultati, non motivatori da social.

4. Stop alla cultura del “devi farcela a 15 anni”

Il talento non ha scadenza. Non tutti devono diventare professionisti. Ma tutti devono poter vivere il calcio come un’esperienza formativa, positiva e costruttiva. Ognuno è nel suo tempo: c'è chi a 18 anni è in serie A e chi ci arriva dopo tanta gavetta nelle serie minori e c'è anche chi non ci arriva. La cultura del risultato può e deve essere sostituita dalla cultura del "Ho fatto del mio meglio, ho espresso il mio massimo potenziale e sono arrivato fin qui".

5. Codice etico vincolante per tutte le società e per tutti gli attori coinvolti

Chi lavora con i minori ha una responsabilità educativa. Basta favori, scorciatoie, illusioni vendute a caro prezzo. Serve un registro etico, controllato e con sanzioni reali.


Conclusione: se non partiamo dalla mente, non andremo mai in porta

Il vero dramma è la distorsione del significato stesso di talento, e il prezzo invisibile che pagano migliaia di ragazzi: la loro salute mentale, la loro autostima, la loro autenticità.

Il talento vero – lo abbiamo detto – è la somma tra predisposizione, allenamento, ambiente e mentalità. E allora serve il coraggio di dire basta. Basta illusioni. Basta favori. Basta scorciatoie.

Serve un calcio che metta al centro la persona, non solo il risultato. Serve un sistema che investa nella formazione mentale, che affidi i ragazzi a professionisti veri, non a chi promette contratti in cambio di bustarelle. Serve una cultura nuova, dove allenare la mente conta quanto allenare il fisico e la tecnica.

Perché un ragazzo che cresce forte nella testa, prima o poi trova la sua strada.

Anche se non sarà sotto i riflettori.

E forse, proprio per questo, sarà una strada più vera.


Luca Sgarbi del programma "Le iene" e Salvatore Bagni ex calciatore e oggi procuratore sportivo

 
 
 

Kommentare


bottom of page